Il fallimento di Catania, un allarme per tutti i Comuni

Da qualche giorno si parla ripetutamente di Catania: la più grande città d’Italia il cui Comune abbia dichiarato fallimento. Tecnicamente si parla di dissesto. Ne ho parlato pochi giorni fa con Pietro Del Soldà, nella sua trasmissione “Tutta la città ne parla“, su Radio Tre.

Il fallimento comunale è sintomo di un “dissesto”, ovvero di una condizione di squilibrio del bilancio che prevede l’attivazione di meccanismi a tutela dei creditori. Sono attivate tutte le misure che possano salvaguardare gli investimenti già compiuti: le spese comunali sono limitate al massimo e contemporaneamente le tasse elevate il più possibile nel tentativo di compensare il debito accumulato.

Il sindaco di un Comune in dissesto opera in una situazione pregiudizievole per la sua autonomia: ovviamente i suoi rapporti con la comunità diventano estremamente difficili. E non parliamo solo di stipendi sospesi per i dipendenti del Comune e delle partecipate, o di illuminazioni natalizie assenti.
Come nel caso specifico di Catania – in cui la decisione è stata votata dalla maggioranza che sostiene il sindaco di centrodestra Salvo Pugliese, eletto a giugno, quindi assolutamente privo di responsabilità per la situazione in cui si è venuto a trovare – le condizioni che portano un Comune a dichiarare il dissesto costituiscono solo gli atti finali di lunghe agonie.

Con la crisi del 2011-2012, lo Stato ha chiesto molto, forse troppo ai Comuni, obbligandoli a tagli di bilancio selvaggi e devastanti, che hanno piegato le municipalità già fragili e hanno reso incapaci di reagire i Centri con le situazioni più critiche. E non stiamo parlando di piccoli numeri: sono circa 300 i Comuni italiani attualmente in sofferenza.

Napoli, Messina e altre decine di Comuni nel Centro-Sud tentano piani di rientro, con tagli di spesa e aumenti di entrate ma, come è avvenuto anche a Catania, le entrate in bilancio non trovano riscontro in cassa per l’evasione diffusa e, soprattutto, per i buchi nella riscossione – mi riferisco a IMU, Tasi e Tari, ma anche più semplicemente a multe e sanzioni – che anche Equitalia non ha saputo tamponare. Si stima che in Italia 3,5 miliardi di Imu non venga pagata. A Catania la riscossione delle tasse comunali è scesa dall’11% al 6%. Ahimè nelle città del Sud la fedeltà fiscale dei cittadini è più bassa, con effetti perversi per i contribuenti diligenti, che si trovano a pagare la quota evasa del costo dei servizi indifferibili (come la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti).

Peraltro le attuali norme sull’ingiunzione fiscale – ovvero lo strumento di cui dispongono i Comuni per riscuotere in maniera forzosa i propri crediti – risalgono al 1910. Inutile considerare che sono inadeguate a rispondere alle condizioni socio-politiche di oggi. E, anche se forse risulta poco popolare, sarebbe opportuno considerare una riforma di aggiornamento dei meccanismi di riscossione da parte di tutta la Pubblica Amministrazione. La pacificazione fiscale che viene proposta in queste settimane tra cittadini e Stato, dovrebbe poter riguardare anche la PA centrale e gli enti territoriali, colpiti dai tagli di questi anni, che hanno leso quel principio costituzionale dell’autonomia (art.5 della Carta fondamentale) su cui si fonda il patto dei cittadini italiani.

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