Il tema delle autonomie locali è stato protagonista del programma “Coffee Break” (su La7) condotto da Andrea Pancani, dove sono stato ospite in questi giorni insieme a Stefano Bonaccini (Presidente Regione Emilia Romagna), Gianfranco Viesti (Osservatorio del Sud), Attilio Fontana (Presidente Regione Lombardia) e alla ministra delle Autonomie Erika Stefani.
Che il territorio italiano e le regioni che lo compongono abbiano caratteristiche ed esigenze diverse, non è di certo una novità: penso all’Appennino, che è il mio territorio, ma non solo il mio, in qualche modo, e non solo geograficamente, è la spina dorsale dell’Italia. Le caratteristiche delle Regioni attraversate dall’Appennino, come quelle di tutto il nostro Paese determinano esigenze e necessità territoriali specifiche e non valide indiscriminatamente per il resto d’Italia.
È la nostra Costituzione (all’articolo 5) a sancirlo: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
L’autonomia differenziata, in questo senso, può essere la migliore risorsa per rispondere alle richieste e alle necessità del cittadino e per garantire il suo benessere, nell’ottica di fornire ovunque lo stesso livello di prestazioni amministrative.
Oggi si torna a parlare di autonomie territoriali, dopo che il tema è stato protagonista – dalla metà degli anni ’90 fino al 2011-2012 – e poi è stato dimenticato, cancellato, rimosso. Dalla manovra del Governo Monti, e poi con i Governi Letta, Renzi e Gentiloni, si è affermato un feroce centralismo, che ha demolito di fatto ogni principio di autonomia amministrativa e di sussidiarietà. Un centralismo asfissiante, le cui conseguenze son state in alcuni casi devastanti.
Così, i principi legati all’articolo 5 della Costituzione citato son venuti meno – basta pensare al principio costituzionale del pareggio di bilancio: oggi a decidere quando e come si spende sui territori è lo Stato centrale, che si è riappropriato di competenze di livello territoriale.
Queste considerazioni trovano conferma nei dati: 12 dei 25 miliardi di risparmi che hanno migliorato i saldi di finanza pubblica negli ultimi 10 anni provengono dalle casse comunali e sono esito di restrizioni di spesa degli enti locali.
Il principio di virtuosità della spesa e adeguatezza del servizio offerto al cittadino è venuto meno ed alcuni comuni – non pochi, circa 300, il caso più “celebre” in questi giorni è quello di Catania – sono stati incapaci di reagire, generando gravi e preoccupanti situazioni di dissesto amministrativo..