Welfare a rischio se non c’è autonomia amministrativa

Le legislazione di emergenza finanziaria che ha segnato almeno i primi cinque anni dopo il 2012, ha finito per mettere in crisi il modello di welfare state nazionale. Sembra un paradosso, ma è così, visto che il welfare italiano è sostanzialmente devoluto alle autonomie regionali e territoriali. Chi vuole vedere nel disegno di autonomia regionale promosso da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna un pericolo all’unità del Paese, o peggio una “secessione dei ricchi”, dovrebbe ricredersi.

Fatta eccezione per l’istruzione scolastica e la previdenza, tutti gli altri servizi essenziali sono affidati alle amministrazioni regionali, provinciali o comunali: dalla tutela della salute ai servizi sociali, dalla programmazione e gestione amministrativa del servizio scolastico alla formazione professionale, dalla promozione delle attività culturali e degli spettacoli alla pratica sportiva.
Attività di sostegno, servizi, prestazioni sociali o educative costituiscono voci di bilancio, “spesa corrente”, nel gelido linguaggio dell’amministrazione. Se non si favorisce l’autonomia – anche finanziaria – i servizi “statali” per i cittadini sono a rischio.

In questi anni si è fatto un gran parlare di taglio alle spesa corrente.
I territori che possedevano capacità gestionali sono state in grado di affrontare le sfide poste dalle nuove regole di finanza pubblica e di garantire buoni livelli di servizio nonostante la pesante riduzione delle risorse disponibili. Son state invece le autonomie locali più deboli e chiamate a governare i territori più fragili, quelle che hanno subito gli effetti devastanti della “gelata” degli ultimi anni.
Lo documentano i dati relativi all’aumento, soprattutto nel Meridione, di Comuni e Province in dissesto o pre-dissesto.
Lo ha dimostrato l’anno scorso il caso del fallimento di Catania.

Ne ho scritto sull’Huffington Post.

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