Tassa di soggiorno, non ci sono ancora regole nazionali

Ieri sono stato ospite di Centocittà, la trasmissione di Radio Uno condotta da Ilaria Amenta. Insieme a Alessandro Nucara (Federalberghi); Mario Bolognari (sindaco di Taormina); Nenne Scano; Emanuele Scarcella (GdF), ho affrontato un argomento caro (in tutti i sensi) a tutti i viaggiatori: la tassa di soggiorno per i turisti.

Introdotta in Italia 10 anni fa, questa imposta è applicabile dai Comuni classificati turistici e dai capoluoghi di provincia (circa 900), come espressione di una somma compensativa dell’aggravio di impegni e servizi legati all’arrivo del turista – o comunque del non residente – in città. La logica è chiara: ogni presenza aggiuntiva in città, in qualche modo affatica la macchina dei servizi municipali (dalla vigilanza urbana allo smaltimento dei rifiuti).

Negli ultimi anni, e specialmente dal 2017, la tassa è aumentata in maniera esponenziale a causa dello sblocco degli aumenti: dopo anni i Comuni sono stati autorizzati a modificare l’imposta, portando a un gettito aggiuntivo di circa 90 milioni (per lo più concentrati nei grandi Comuni turistici).
La tassa di soggiorno non è una vera e propria imposta di scopo perché i Comuni non hanno la necessità di provare che l’introito sia finalizzato a servizi aggiuntivi e, purtroppo e spesso, costituisce con il suo gravame burocratico un ulteriore problema tecnico per gli albergatori, invece che un’opportunità di introito.
A oggi manca una regolamentazione nazionale per questa rendicontazione, che viene applicata in maniera variabile da città a città con l’introduzione da parte di alcuni Comuni di parametri di variazione dei costi in base alla categoria dell’alloggio e ai costi extra forniti durante il soggiorno. Ecco quindi che nella Capitale si paga fino a 7 euro di tassa di soggiorno, e anche Firenze, Napoli e Palermo, sono in pole position nella classifica delle città con la tassa di soggiorno più costosa.

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