Negli ultimi 50 anni la tecnologia ha trasformato profondamente il mondo, e anche il modo di lavorare. Se ripenso alla mia esperienza da Sindaco, o anche alla mia professione di avvocato, poco o nulla è rimasto uguale rispetto a quando ho cominciato.
Lo smart working, pratica largamente diffusa all’estero più che in Italia, nel settore privato più che in quello pubblico, è un modello di lavoro “agile” che consente di avvantaggiarsi dei benefici introdotti dalla rivoluzione digitale in corso.
Secondo il Rapporto Future of Jobs presentato a Gennaio 2016 al World Economic Forum, nel 2020 la metà degli occupati lavoreranno al di fuori del contesto fisico aziendale. Le ragioni per cui scegliere lo smart working sono molteplici: consente di evitare lo stress da trasferimento casa a lavoro, di migliorare l’equilibrio tra vita privata e professionale, di aumentare la qualità dei risultati prodotti.
E i benefici per le PA sono anche di tipo economico: i risparmi legati al contenimento dei costi di mantenimento degli spazi lavorativi potrebbero condurre ad una operazione di spending review sui conti dello Stato stimabile tra 1 e 3 miliardi.
Per accompagnare la PA in questa rivoluzione, è necessario definire norme e guidare il personale in un percorso formativo, necessario per scardinare la frequente resistenza al cambiamento che caratterizza il settore della Pubblica Amministrazione, non di tutta, più di quella centrale che di quella locale. Cosa occorre dunque? Apparentemente due semplici operazioni: riprogettare lo spazio fisico e virtuale di lavoro, attraverso la riorganizzazione e razionalizzazione dei luoghi di lavoro, e promuovere e diffondere l’uso delle tecnologie digitali a supporto della prestazione lavorativa, per colmare il digital devide anche attraverso l’applicazioni gestionali e di project management accessibili da remoto.
La Fondazione Ifel di cui sono presidente ha dedicato all’argomento un webinar in programma per mercoledì prossimo.