Ci vogliono sette anni e mezzo per l’esecuzione di un’opera pubblica. E’ quanto emerso in un recente seminario dell’IFEL – la Fondazione dell’Anci che presiedo – secondo uno studio condotto dal professor Alessandro Petretto dell’Università di Firenze. Un dato sconcertante, di fronte al quale tornano alla memoria gli aggettivi con i quali Don Luigi Sturzo, all’inizio del secolo scorso, definiva la burocrazia italiana: tarda, ingombrante, regolamentarista e diffidente.
Non molto è cambiato oggi.
Ne ho scritto recentemente, sull’Huffington Post e sul sito Interris.it: la macchina amministrativa è strettamente legata alla politica. L’efficienza dell’una è strettamente legata alla inequivocabilità dell’altra, altrimenti, ci si può davvero sorprendere se il tempo stimato per un realizzare un’opera pubblica sia di sette anni e mezzo?
E a poco valgono gli sforzi per aumentare gli investimenti dei Comuni che secondo il Vice Ministro all’economia Laura Castelli segnano il +17%. Perché lo sblocco, oltre ad interessare risorse del biennio 2015/2016, non tiene in considerazione un ulteriore problema poco noto: i finanziamenti spesso e volentieri ci sono, la vera impresa però è riuscire a spenderli nell’intricata giungla amministrativa fatta di norme mal scritte e di una giustizia amministrativa poco coordinata. C’è una tendenza a centralizzare che no aiuta.
Eppure, Giovanni Paolo II, nella sua enciclica Centesimus annus, sosteneva: “Una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune“.
È passato un secolo dall’appello di don Sturzo, quasi vent’anni dall’enciclica di Giovanni Paolo II e non molto è cambiato oggi. Come a dimostrare che Hegel aveva ragione: “Dalla storia impariamo che non impariamo dalla storia”.