La notizia delle dimissioni di Raffaele Cantone dalla presidenza dell’Autorità nazionale anti-corruzione (Anac) era nell’aria dal mese di febbraio. Ma credo che sbaglieremmo a fissare il dito delle dimissioni e non la luna della condizione dell’Anac. Dopo cinque anni di vita l’Autorità istituita dal Governo Renzi ha mostrato tutta la sua limitatezza. Ne ho scritto su Huffington Post.
Direi che, nonostante i numeri snocciolati a fine corsa dal sito Anac, non si è inciso sulla prassi della corruzione, “ottenendo l’effetto singolare di intimorire gli operatori amministrativi più che i protagonisti del malaffare”. Per citare il sito di un esperto di Pa si è costruito un “modello italiano” di lotta alla corruzione, che si è mostrato sostanzialmente inadeguato.
Oltre alla promozione del sospetto, l’approccio scelto da chi ha voluto un’Anac fatta così, ha preteso la centralizzazione in un’unica autorità di tutte quelle funzioni di analisi e di controllo che nella gran parte dei Paesi occidentali è suddivisa e controbilanciata da soggetti diversi. In Italia si è preferito contrastare un fenomeno profondo e radicato come la corruzione, affidandosi alle statistiche, ai numeri, agli algoritmi ma anche agli adempimenti e alle prescrizioni. Ci si è chiesti come comminare sanzioni ai funzionari inadempienti, prima che intercettare e reprimere i corrotti e il loro malaffare.
La cultura dell’adempimento ha prevalso su quella della funzionalità. Adempiere o funzionare? E’ il quesito della Pubblica Amministrazione, non da oggi. Ma se si sceglie di privilegiare l’aspetto persecutorio, quasi afflittivo, si finisce per rendere ancora più sterile il contributo della burocrazia all’efficienza del Paese. Mi permetto di trasferire in queste valutazioni non tanto l’elaborazione di chi studia a tavolino i fenomeni della buona e della cattiva amministrazione, ma l’esperienza di dieci anni di sindaco e oggi, dalla presidenza di Ifel-Anci, il continuo contatto con tanti colleghi amministratori locali.
L’idea con cui è stata costruita Anac, prima ancora del modo in cui è stata guidata dal suo presidente, si è manifestata in una moltiplicazione degli adempimenti formali, come strumento per ridurre l’esposizione ai fenomeni corruttivi. L’esito? L’ipertrofia normativa è nota; la cattiva qualità della scrittura delle norme è altrettanto conosciuta; il modello italiano di anti-corruzione promossa da Anac e con l’Anac ha finito per moltiplicare le negatività: è opportuno ricordare che la giustizia amministrativa si è trovata ad affrontare più di mille giudizi aventi come oggetto l’interpretazione delle linee guida dell’Anac!
L’incertezza normativa, il timore della sanzione e l’assenza di un “referente collaborativo” (l’Anac è stata spesso percepita dai funzionari amministrativi più come un guardiano per reprimere, che come un consulente per promuovere le buone pratiche) hanno finito per favorire il blocco sostanziale dell’azione amministrativa.